di Luigi Compagnoni
Sabato 20 settembre alle 11:30, nella Sala Purificato della Prefettura di Frosinone, la nostra comunità si ritrova per un gesto semplice e solenne: dire i nomi, ricordare i volti, consegnare alla memoria collettiva il “no” di chi scelse la dignità. È la cerimonia per il conferimento della Medaglia d’Onore agli Internati Militari Italiani (IMI) originari di Ceccano deportati nei lager nazisti e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra, onorificenza conferita dal Presidente della Repubblica.
Saranno presenti le famiglie di Lorenzo Malizia (nato il 26/10/1920), catturato sul fronte greco-albanese nel settembre 1943 e internato nel lager VI C; di Angelo Maura (nato il 02/12/1923), deportato in uno dei campi del Distretto VI presso Bonn, in Vestfalia e di Giuseppe Staccone (nato il 2/08/1923), internato nel lager IX C. Con loro, la città abbraccia la storia di Giovanni Gianfelice (nato il 14/05/1922 a di Sonnino – allora Littoria), morto nel lager IV B: la medaglia sarà consegnata ai suoi parenti grazie all’iniziativa del nipote, Giovanni, che da oltre quarantacinque anni vive a Ceccano e che avviò la richiesta dopo un incontro pubblico sugli IMI organizzato dalla Rete delle Associazioni nel settembre 2024.
Dietro ogni nome c’è una storia che parla piano, ma che non smette di farsi ascoltare.
Angelo Maura ricordava la terribile fame sofferta in quella drammatica prigionia. In un campo vicino era prigioniera una ragazza ucraina: rischiando di persona, gli faceva arrivare qualche buccia, un tozzo di pane duro. “Mi ha salvato la vita” disse nell’incontro pubblico organizzato a Ceccano nel novembre 2011, durante la presentazione del libro “Gli Internati Militari Italiani” di Mario Avagliano e Marco Palmieri. Con lui c’erano Giovanni Del Brocco, Francesco Ardovini, Giuseppe Lucchetti: ultimi testimoni, oggi scomparsi. In quelle voci c’era ancora il dolore delle sofferenze patite dietro i reticolati sottoposti a lavori forzati e alla crudeltà degli aguzzini.


Lorenzo Malizia conobbe l’abisso nelle miniere, a Dortmund, “a millecinquecento metri sotto terra”. Sopravvissuto a un bombardamento di “fuoco amico” sul campo di concentramento da parte dell’aviazione alleata, finì in ospedale con una terribile ferita alla gamba e con la febbre che “non scendeva mai”. Un giorno, una commissione sanitaria tedesca si preparò a ispezionare i feriti: dove vedeva garze intrise di pus, decideva l’amputazione. Un cappellano militare lo sollevò dalla branda e aiutato da un commilitone che lo portò in bagno e lo tenne sulle spalle per ore, finché la commissione passò oltre. Si salvò così, del Prete non ebbe più notizie forse anch’egli scomparso poi nel turbine della guerra. Il figlio Memmo ne ha raccolto le memorie di quei drammatici fatti in un libro: basterebbe quel gesto a spiegare il significato di questa medaglia anche in ricordo di chi salvò il padre da una atroce amputazione.

Giuseppe Staccone fu preso in Croazia, deportato a Stettino in Polonia. Destinato come tutti gli Internati Italiani al lavoro coatto era impiegato come falegname per costruire baracche; verso la fine della guerra lo obbligarono a scavare trincee “in prima linea” contro l’avanzata delle truppe Russe. La razione era una misera brodaglia di barbabietole il più delle volte unico pasto giornaliero. Un giorno vide impiccare due italiani per poche mele rubate: i corpi rimasero appesi al cancello del lager per settimane. Questa tragica immagine, raccontata la sera, davanti al camino, ai figli, come ci ha testimoniato il figlio Felice, costituisce ancora oggi il suo monito sulla ferocia della guerra.

La storia di Giovanni Gianfelice è arrivata fino a noi grazie ad un diario segreto (che sarà pubblicato solo nel 1962 con il titolo “Il campo della Morte”) tenuto del cappellano padre Luca Maria Airoldi, nel campo di Zeithain/IV B, dove morirono 900 militari italiani. Nelle pagine che ancora oggi suscitano dolore ed emozione nello sfogliarle, Padre Airoldi riportò tutte le informazioni con l’obiettivo, finita la guerra, di poter dare notizie ai familiari sulla tragica scomparsa dei loro cari …” Giovanni giunse il 4-5-1944 dall’Arbeitskommando di Bitterfeld. Parve rimettersi, poi precipitò. Chiese i sacramenti. Rimase cosciente fino all’ultimo: “Poveri miei cari!”, sussurrò prima di spirare”. Negli anni Novanta la sua cassetta ossaria rientrò a Sonnino, accompagnata da un picchetto militare d’onore: la madre non c’era più per accoglierlo. Oggi il nipote Giovanni custodisce con affetto e dedizione le lettere e pagine del diario che non sono solo carta d’archivio, ma un patrimonio da conservare e tramandare.

Questa cerimonia parla anche di ciò che fino a pochi anni fa conoscevamo poco. Oggi sappiamo finalmente il numero esatto degli Internati Militari e dei Deportati civili di Ceccano prigionieri dei tedeschi: 213! Undici non tornarono, morirono dietro i reticolati (Felice Alternati, Domenico Battista, Vitaliano Calenne, Pietro Antonio Ciotoli, Vincenzo Del Brocco, Cesare De Santis, Michele Di Mario, Giovanni Mastrogiacomo, Alberto Misserville, Vittorio Morrone, Guido Natalino Rispoli) e per tragica ironia della sorte quattro di essi perirono a seguito dei bombardamenti alleati. Infine dei 213 Internati, sette erano civili deportati e nella trama dei racconti e delle ricerche spunta anche un volto femminile, Antonietta Gallucci, arrestata mentre lavorava alla fabbrica di munizioni di Bosco Faito e internata a Berlino: segno che la deportazione non colpì solo chi indossava le uniformi, ma l’intera società, fabbriche e famiglie comprese.
Dire “no” allora non fu un gesto astratto. Significò rifiutare di tornare a combattere sotto le insegne nazifasciste, accettando il lager pur di non tradire la propria coscienza.
Per questo, il 20 settembre, non celebriamo eroi lontani, ma cittadini, prima di essere militari, come noi – contadini, operai, artigiani, studenti – posti davanti a una scelta enorme. La medaglia che viene riconosciuta ai loro nomi è un impegno: proseguire le ricerche, colmare i vuoti, mettere a disposizione archivi e testimonianze, portare queste storie nelle scuole, nelle case, nelle piazze. Perché la memoria viva non è un museo di ricordi: è un atto di responsabilità civile.